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Cultura
Armenia - 03 settembre 2014Torna all'indice →

In concorso al Festival di Venezia “The Cut”, dal genocidio armeno al viaggio di ricerca

Per l'arte vale anche la pena di morire. Ne è sicuro Fatih Akin, in Concorso a Venezia con “The Cut”, film che parte dal genocidio armeno per raccontare poi una storia di ricerca, di cammino, che supera il conflitto tra protagonista e antagonisti. La storia svolge a Mardin nel 1915. Una notte la polizia turca fa irruzione nelle case armene e porta via tutti gli uomini della città, incluso il giovane fabbro Nazaret Manoogian (Tahar Rahim), separandolo dalla famiglia. Scampato miracolosamente al massacro, Nazar scopre che le sue due figlie gemelle sono ancora vive. L'uomo decide così di ritrovarle e si mette sulle loro tracce. Dai deserti della Mesopotamia a Cuba, fino agli Stati Uniti, Minneapolis e il North Dakota. “Mi ci sono voluti sette-otto anni per prepararmi emotivamente al film: qualcuno mi ha minacciato, ma sono cose a cui basta non dare troppo peso. Si tratta di piccole reazioni che non hanno importanza”, racconta Akin, di nuovo a Venezia cinque anni dopo “Soul Kitchen”. “C'erano alcune idee che volevo condividere con il pubblico, in particolare in Turchia. Volevo ci fosse empatia con il protagonista, o la storia. Per farlo era necessario ampliare il confine dell'identificazione, in modo di arrivare anche a coloro che negano il genocidio armeno, così da potersi identificare con il protagonista”, racconta Akin. Nel cast del film, anche l'attore armeno Simon Abkarian: “Il film di Fatih era quello che gli armeni stavano aspettando. La prima generazione ha dovuto sopravvivere, la seconda vivere, la terza reagire. Un film non basta, dobbiamo farne di più, ma c'è una lobby turca che quando può interferire con film come questo non si tira indietro”. Infine, la scelta di far parlare i personaggi armeni del film in inglese: "L'utilizzo dell'inglese non è per questioni di marketing. Voglio aver controllo anche sui dialoghi, non parlo l'armeno. Anche Bertolucci ha girato “L'ultimo imperatore” in inglese, stessa cosa ha fatto Polanski con “Il pianista”: la cosa essenziale è questa, quando dirigo i miei attori non voglio essere interrotto ogni cinque minuti da un coach che vada lì a riprenderli perché l'accento non va bene", spiega il regista.